Riflessioni sui rifugi d’alta quota a margine delle emergenze, tra scarsità d’acqua e riduzione del permafrost

di LUCA GIBELLO
Le drammatiche conseguenze del cambiamento climatico in alta montagna sono sotto gli occhi di tutti. Risulta persino superfluo ribadirlo: ghiacciai in ritirata – se non estinzione – a velocità inconcepibili anche solo qualche anno fa, quando già gli allarmi erano suonati; acqua di approvvigionamento più preziosa del… gas; terreni sempre più instabili, con crolli di ogni genere. Le conseguenze le stanno pagando in prima persona anche (e soprattutto) i rifugi alpini, e tutto ciò non ci può esimere dal trarre qualche considerazione sulla loro conduzione, sulla loro pianificazione. Esagerando, ma non più di tanto, potremmo dire sulla loro stessa ragion d’essere.
Pensiamo al caso emblematico. Quest’anno il rifugio Gonella (3071 m; nella foto di copertina) ha dichiarato forfait il 18 luglio per mancanza d’acqua. Ma, già da qualche anno, chiudeva a metà agosto, non solo per il prosciugamento della falda, ma anche perché la via italiana al Monte Bianco non era più percorribile a causa dei crepacci aperti come voragini. Quest’anno l’apoteosi, con il “combinato disposto” delle due criticità. Parliamo di un rifugio ricostruito completamente appena undici anni orsono, costato un occhio della testa. Un’opera architettonica e ingegneristica di tutto rilievo, che è rimasta in funzione un mese… Visto che il futuro non sembra riservare nulla di meglio, e che il Gonella non è una meta di transito escursionistico, che senso ha tutto ciò?
Sul versante francese del massiccio, l’ancor più faraonico rifugio del Goûter (3835 m), in funzione dal 2013, è stato chiuso un paio di settimane per le condizioni estremamente critiche della salita al tetto delle Alpi, sia nella parte alta del tracciato, sia nell’ormai famigerato canalone di accesso in basso, che scarica sassi in continuazione.
E, con i sassi dell’intero sperone su cui era posto, il 26 agosto scorso è franato a valle, disintegrandosi completamente, il bivacco Borgna Alberico al col de la Fourche (3680 m), sempre nel massiccio del Bianco.
Venendo alle Alpi centrali, il rifugio Casati al Cevedale (3269 m; celebrato nel libro fresco di stampa scritto da Andrea Palomba, dal titolo 40 anni tra roccia e ghiaccio, che illustra la dedizione del custode Renato Alberti e della sua famiglia) sta letteralmente scivolando a valle per via dell’assottigliamento del permafrost, lo strato di terreno perennemente ghiacciato che garantisce il “cemento naturale” delle montagne (e delle fondazioni dei rifugi d’alta quota). Con urgenza, si sta approntando il progetto di ristrutturazione/sostituzione dell’opera.
Non se la passa molto meglio la capanna regina Margherita sul Monte Rosa (4554 m), che dà segni di cedimento, e presto il CAI centrale si troverà davanti all’annosa questione sul da farsi: ristrutturare, ricostruire ex novo o… demolire e basta?
In queste poche righe non pretendiamo certo di affrontare la questione ma, tuttavia, qualche domanda è lecito porsela. Da qualche anno, i cugini del Club alpino svizzero, di fronte alla medesima questione, stanno riflettendo sulle varie possibilità. Laddove non è raccomandabile ricostruire in loco, s’ipotizzano la delocalizzazione o, eventualmente, il solo abbattimento.
Per tornare al rifugio del Goûter, sappiamo che i suoi micropali di fondazione sono stati calcolati e gettati a 14 metri di profondità per resistere almeno vent’anni alla modificazione delle condizioni. Ma siamo certi che i parametri previsionali di allora siano ancora compatibili con i fenomeni odierni?
Insomma, se il costruire da zero, laddove prima non c’era nulla, è un principio quasi ovunque abiurato da almeno un trentennio, ora si comincia a fare strada anche la domanda sulla liceità del ricostruire laddove c’era già qualcosa.
Se incrociamo tali riflessioni con il problema dell’approvvigionamento d’acqua, che è il rovescio della medesima medaglia, allora comprendiamo che anche il modello del rifugio energeticamente autosufficiente con le rinnovabili potrebbe non bastare: se manca l’acqua, saltano anche le centraline idroelettriche?; se il rifugio resta aperto meno di tre mesi l’anno, che minimo di redditività garantisce?; se aumentano i crolli di pietre, le valanghe o i cedimenti del terreno, a quali maggiori rischi è sottoposto? e quali maggiori costi edilizi bisogna sostenere per preservarlo o ripararlo?
Tutto ciò, quando, per contro, la richiesta di energia elettrica da parte dei frequentatori cresce (guai se non possiamo ricaricare i nostri dispositivi, o se non c’è il wi-fi!); e cresce la richiesta di comfort: più docce calde per tempi più lunghi, più cibi freschi e cucinati al momento; più spazio e privacy nelle camere.
Forse, è davvero ora di ascoltare i segnali che ci manda il pianeta, e fare qualche passo indietro. Una sorta di “decrescita felice” per i rifugi potrebbe significare il ritorno a sistemi di gestione più basici, che facciano ritornare primaria l’oggi ancor più preziosa funzione di presidio dell’alta quota, a discapito della fornitura di servizi da albergo e ristorante stellato. Mentre molti rifugi, da sempre, sono stati concepiti come supporti essenziali e minimi, altri (pochi, per fortuna) sono stati concepiti come “galline dalle uova d’oro” per proprietari e conduttori. Ecco, quelli non c’interessano, e crediamo che il loro tempo stia definitivamente tramontando. Si può invece ragionare intorno a sistemi alternativi di gestione, basati magari su inedite forme di “cooperazione” da parte dei visitatori. Una sorta di ritorno alle origini, come abbiamo, un po’ provocatoriamente, ipotizzato nella conclusione di un’intervista rilasciata per montagna.tv.
Articolo precedenteIl Nord-Est ancora protagonista
Articolo successivoLassù, sulla Grapa