Recentemente concluso un ulteriore ampliamento dello storico rifugio del CAI Biella sul Monte Rosa

di LUCA GIBELLO

 

Ci troviamo dinanzi a uno degli esempi più paradigmatici dell’articolata, stratificata e tribolata storia dei rifugi alpini.

All’indomani della scomparsa di Quintino Sella, nel 1884, alcuni dei costruendi ricoveri per i pionieri dell’alpinismo porteranno il nome del fondatore del CAI. Nel 1885, sulla parte terminale dell’aspro e accidentato sperone che conduce al ghiacciaio del Felik, nel gruppo del Monte Rosa, presso la cima del Castore (4226 m), la sezione di Biella del CAI erige a ricordo del suo illustre concittadino un piccolo manufatto in legno, addossato al costone roccioso. Capace di da 15 posti letto, costò 1.388 lire. Poco più in alto, a 3585 m, nel 1907 si costruisce nelle vicinanze una seconda struttura a capanna (da 25 posti), stavolta con tutti i quattro lati fuori terra. Nel 1924 questa viene raddoppiata in lunghezza, mentre su un lato le si addossa il fabbricato vecchio, smantellato dal sito d’origine e rimontato, adattandolo alle mutate esigenze. La capienza sale a 60 posti. Nel frattempo, il rifugio è minacciato da una vasta frana del friabile versante, che ne impone una doppia traslazione a monte, nel 1936 e nel 1945. Un’ulteriore ristrutturazione (1948) ci consegna la capanna vecchia nella collocazione e nelle sembianze attuali. Tuttavia, dal 1981, essa svolge il ruolo di rifugio invernale e di emergenza. Infatti, la sempre crescente frequentazione del Monte Rosa richiede la costruzione di una nuova e assai più grande capanna, da circa 150 posti letto, la quale viene ancora parzialmente ampliata a inizio anni ’90 per dare maggiore spazio alle cucine. Nel frangente, si costruisce anche un piccolo volume indipendente in posizione defilata, destinato ai servizi igienici, anch’esso più che raddoppiato nel tempo, attraverso una soprelevazione. L’ultimo tassello di questa lunga storia è dell’anno scorso, quando un ulteriore ampliamento ha “saldato” il fabbricato del 1981 al corpo servizi.

L’intervento, per un costo di circa 350.00 euro stanziati da CAI Biella, CAI centrale e Banca Sella, verrà completato nel 2021 in occasione del 40° anniversario del nuovo rifugio. Si tratta di un volume di ragguardevoli dimensioni (circa 220 mq), distribuito su un unico piano, dalla planimetria irregolare, dettata dalla necessità di occupare lo spazio precedentemente libero tra il rifugio e il fabbricato dei servizi igienici. Così, la nuova struttura, realizzata in pannelli lignei XLam, si addossa al corpo principale lungo tutto il suo sviluppo longitudinale, rastremandosi poi in corrispondenza delle toilette, che ora ospitano anche la centrale termica. Il progetto, dell’architetta Carolina Bianchi, per la direzione lavori del geometra Renzo Canova, migliora notevolmente le condizioni di vivibilità della zona giorno del rifugio: ampliando le aree d’ingresso, offrendo un vano per l’essiccatoio e risolvendo il problema dei doppi turni a tavola, legato all’esiguità dei posti nel precedente refettorio, che erano circa la metà dei posti letto. Inoltre, sotto il nuovo locale è stata ricavata una vasca di raccolta dell’acqua (quella piovana convogliata dalla nuova copertura piana e quella di fusione del ghiacciaio), che accresce le riserve permettendo il lavaggio delle stoviglie in porcellana, vetro e acciaio. Queste hanno così sostituito la plastica, riducendo drasticamente il volume dei rifiuti da elitrasportare e smaltire a valle (si stima un abbattimento di circa il 70% dei 3.600 kg di plastica prodotti annualmente). Un’attenzione per la compatibilità ambientale che si affianca all’autosufficienza energetica, garantita dall’impianto fotovoltaico, per l’occasione ammodernato.

Sotto il profilo degli impatti visivi e dell’inserimento nel contesto, il nuovo intervento fa di necessità virtù, essendo vincolato dagli assetti e dalle quote altimetriche preesistenti. Ne consegue che la riconoscibilità della silhouette dell’ormai ex nuova capanna (la costruzione del 1981) risulta compromessa, laddove “giocava” con svuotamenti e tagli controscarpa delle pareti per dissimulare l’effetto di un blocco monolitico. La forma del rifugio avrebbe richiesto un ampliamento in lunghezza, ovvero per estrusione del corpo longitudinale. Tuttavia, una tal soluzione non avrebbe risolto l’isolamento delle toilette, pensate in un secondo tempo e raggiungibili solo uscendo à la belle etoile. Così l’ampliamento si configura come un volume scatolare privo di particolare connotazione, più contrapposto che non integrato rispetto alla preesistenza; un distacco marcato anche dalla scelta di rivestire le due pareti di testata e la copertura di una “pelle” costituita da una lamina in rame. Inoltre, l’intervento relega definitivamente in secondo piano la capanna storica, ormai del tutto celata a chi arriva dal basso e visibile solo in un secondo momento.

D’altronde, l’intera vicenda, nel suo scostante processo di aggregazione per parti, sembra la plastica evidenza della fenomenologia evolutiva dei rifugi, chiamati a soddisfare crescenti esigenze di comfort e a limitare le esternalità negative legate alla loro gestione. Gestione peraltro felicemente portata avanti ormai da due generazioni da parte della famiglia Favre, basata nella sottostante Val d’Ayas.

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