Note a margine del fortunato romanzo d’esordio di Marta Aidala

 

di LUCA GIBELLO

È a metà tra la formazione e l’introspezione psicologica il romanzo d’esordio che ha dato la notorietà a Marta Aidala, riscuotendo fin da subito un ottimo successo di critica e di pubblico. Sospendendo il giudizio letterario – sebbene, da profani, gli apprezzamenti ci sembrino un poco sopravvalutati -, concentriamoci sul soggetto e le intenzionalità.

Premettendo che gli amanti dell’azione e dei colpi di scena rimarranno delusi, vi si ritrova un’attenta disamina dei modi di concepire e vivere la montagna, filtrati attraverso la lente specifica del rifugio. È lui l’oggetto intorno a cui ruota tutta la narrazione. Come non rammentare l’interpretazione che ne fornisce Annibale Salsa, ovvero quella del rifugio come presidio territoriale? Una vera e propria casa, abitata da chi sta in montagna per scelta e non per predestinazione (come avviene per i pastori), e frequentata da chi la montagna magari la venera, ma poi al tramonto torna giù in città (come fanno escursionisti e alpinisti).

Così, il vero protagonista del libro non è tanto l’autrice, trasfigurata nella vicenda biografica di Beatrice (rispetto alla quale non sappiamo il grado di aderenza al vero, e questo è un pregio che intriga la lettura), quanto il rifugista che gestisce una struttura sita in Provincia di Torino di cui si tace il nome (ma i frequentatori di quel territorio non faticheranno a riconoscerlo dai precisi riferimenti), presso la quale Bea presta servizio per quasi un anno. Magistralmente ritratto nei suoi aspetti caratteriali, è il Barba che troneggia («Se sommi due cifre dispari, il risultato sarà sempre un numero pari. Nella sua vita era pari tutto, tranne lui, uno dispari»), mettendo a nudo le contraddizioni e i paradossi del rifugista, con l’empatia per il luogo (che gli fa dire: «Esistono posti in cui ti piace svegliarti la mattina. Che sai che apri la finestra e li vedi. E non è che ti curano, non ti cura niente e nessuno. Sono solo la casa che ti scegli.») e per il suo mestiere («È una delle cose che amo di più del mio lavoro. Di tutti i rifugi. Che sono luoghi che uniscono.»), ma anche con l’insofferenza verso i clienti, spesso definiti «rompicoglioni», considerati un po’ alla stregua dei mercanti nel tempio.

E in quel tempio della natura, sulla conca in cui è adagiato il rifugio troneggia anche la Becca, somma divinità a cui sempre è rivolto lo sguardo del Barba. Quella Becca cui Bea anelerà ma che non salirà mai. Un altro paradosso che fa parte della stanzialità di chi vive in montagna ma non ha tempo per goderne appieno.

Con un’ultima annotazione. L’esperienza rifugistica trans-stagionale di Bea fornisce quasi tutto il materiale del romanzo. Ma ricordiamoci che quel rifugio (nella narrazione come nella realtà) è raggiungibile da una – seppur sgangherata – strada carrozzabile, d’estate aperta a tutti. L’esperienza in un rifugio collocato davvero in alta quota, dove se non arriva l’elicottero ci arrivi solo a piedi dopo lungo e faticoso avvicinamento, sarebbe stata ancora un altro paio di maniche.

 

Marta Aidala, La strangera, Guanda, 2024 (330 pagine, 18 euro)

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