Il Moro della cima, romanzo biografico di Paolo Malaguti dedicato al primo custode del rifugio Bassano sul Monte Grappa
di LUCA GIBELLO
Nessun nobile lignaggio, nessun colpo di scena nella sua esistenza di “pitocco”, umile popolano che, con la sua famiglia dei dintorni di Bassano, cerca di sbarcare il lunario in tempi assai duri. Eppure, la vita di Agostino Faccin (1866-1951), per tutti il Moro Fraun, ha dello straordinario. Una sorta di cartina al tornasole che ci pone davanti alla storia: quella del rapporto tra uomo e montagna, con la “città che sale” e plasma le terre alte, attraverso una soverchiante e progressiva infrastrutturazione. Ma il tutto s’inscrive all’interno della grande storia, quella con la esse maiuscola: la vicenda politica e bellica dell’Italia post-unitaria, il nazionalismo e l’irredentismo, il fascismo. E, su tutto, il dramma della grande guerra, con i suoi prodromi e le sue conseguenze di lunga durata.
Perché il Moro è il primo guardiano del rifugio Bassano, inaugurato dalla sezione del CAI nel 1897 presso la Cima Grappa, che diventerà uno dei baluardi della resistenza italiana dopo la rotta di Caporetto, e dagli anni trenta ospiterà il monumentale sacrario militare.

Quest’ultimo resta sempre sullo sfondo; è l’espediente, per il Moro, che in realtà è persona assai schiva, quasi ostile nei confronti del genere umano, per poter stare lassù e godere degli spazi ampi e liberi, che vedrà via via “violati” dalla modernità e violentati dalla Storia. Ma, attraverso il rifugio, egli incontrerà in prima persona alcuni dei protagonisti che la scrissero: dal cardinale Sarto, futuro papa Pio X, a Gabriele D’Annunzio, dal generale Cadorna al generale Giardino.
Così, anche quando il Moro è giù al piano, con la sua famiglia, egli guarda in alto, al monte. Lì vanno i suoi pensieri, e questa distanza rispetto alle “misere” cose umane è ben compendiata in questo passaggio di un libro che si legge volentieri, ritmato da una prosa a tratti poetica e gustosamente farcita dall’idioletto veneto: «Giusto per dire, anche se pareva un discorso di poco conto, lassù non c’era l’odore ributtante della vita. Non c’era, lassù, il sentore maleolente di sudore vecchio, stantio, che si lega alle vesti del pitocco anche se le lava cinque volte con la cenere. Né la puzza acre del pollaio, o l’aroma smagante del fieno che fermenta, o il fetore tristo e quasi cadaverico della muffa fredda nelle cantine, che intanfa l’aria e s’ingromma ai muri, o il lezzo pungente della polvere antica dei solai… Lassù c’era il profumo dell’erba fresca, e a volte nemmeno quello, quando tirava vento forte: c’era solo aria pura, e quel freddo odore di niente gli penetrava le narici e gli dava l’illusione che anche lui fosse niente, e subito si sentiva leggero, quasi felice».