Una riflessione sugli usi impropri del termine, a tutto vantaggio del marketing e a scapito della consapevolezza ambientale
di LUCA GIBELLO
Il rifugio di passo Santner (2734 m, nel cuore del Gruppo del Catinaccio, in area Dolomiti Unesco) non ha pace. Inaugurato a luglio 2022 tra le polemiche, da marzo 2023 è preso di mira da una petizione su Change.org che in poche settimane ha superato le 50.000 firme, accusando l’opera di gigantismo e, ancor più, le critiche sono rivolte alla Provincia autonoma di Bolzano, rea di aver svenduto ai privati proprietari il terreno su cui sorge la struttura. Anche noi avevamo espresso riserve sull’entità dell’operazione, sebbene il progetto architettonico rivelasse una sua coerenza.
Tuttavia, vorremmo qui spostare l’attenzione su un’altra questione, che solo in parte solleva analoghi polveroni, mentre per l’altra parte passa sotto un indifferente silenzio, quando non riscuote palesi consensi.
Ci riferiamo all’uso improprio del termine “rifugio” per strutture che poco o nulla hanno da spartire con esso. La situazione dei cosiddetti rifugi collocati lungo le strade carrozzabili di montagna, o di quelli collocati lungo le piste da sci e presso impianti di risalita è nota. Spesso tali strutture offrono servizi di ristorazione e ospitalità di un lusso esagerato: basti fare un giro del web per vedere quanto è caldo il dibattito sui rifugi gourmet che servono pesce fresco e champagne, o spettacoli e musica d’intrattenimento a tutto volume. Al di là dei discorsi moralizzanti (noi, comunque, siamo inequivocabilmente per la linea… francescana), va comunque tenuta in conto, a livello legislativo, come da più parti invocato, la differenza logistica tra la conduzione di una struttura facilmente raggiungibile da mezzi meccanici e, invece, una totalmente isolata.
Tuttavia, c’è un’altra condizione nella quale fregiarsi del titolo di “rifugio” può implicare un plusvalore economico. Si pensi alla recente proliferazione di strutture ricettive concepite come “nidi isolati nella natura”. In realtà, trattasi di dependance, particolari bungalow (ovvero moduli abitativi denominati in inglese cabin o skylodge) legati o meno ad alberghi o reception remote, anche in omaggio alle nuove mode del glamping, il campeggio glamour. Tutti, o quasi, connotati da un elemento comune: la realizzazione di un’alcova esclusiva, isolata ma quanto mai accessoriata, per un’esperienza (in genere di coppia) romantica e sensazionale, con viste mozzafiato. Come dire: dormire immersi nella wilderness ma, al contempo protetti da essa, dentro una bolla artificiale e “coccolati” da tutti i comfort urbani. Meglio ancora se tali manufatti vengono piazzati a sbalzo da pareti a strapiombo (o nel mezzo delle stesse), sulla sommità di una vetta, appese su un albero o con l’albero che vi passa in mezzo. Perché non si dà esperienza forte senza una bella scarica di adrenalina (e un sostanzioso esborso per il pernotto).


Comunque, se si vuole davvero dormire immersi nella natura, il bivacco alla belle étoile resta un’altra cosa…