Riflessioni sul mutamento del servizio d’accoglienza a margine d’una vicenda personale

di SIMONE BOBBIO

 

Sono le 20 d’una fredda sera d’inizio autunno. Una comitiva composta da adulti e bambini raggiunge una splendida radura in quota dove sorge un rifugio di montagna. Hanno effettuato una bella escursione nei boschi per ascoltare il bramito dei cervi ma, a causa delle temperature basse e il forte vento che hanno trovato sul percorso, si convincono ad abbandonare l’idea del suggestivo pic-nic sotto la luna ed entrano nella struttura per chiedere qualcosa di caldo da mangiare. Il rifugista risponde che i tavoli sono tutti occupati e che non li può nemmeno servire al bancone perché ne ha bisogno per il servizio. D’altronde tutte le superfici sono occupate da elaborati ampi vassoi di ghiotti antipasti alla piemontese; siamo in un imprecisato luogo delle Alpi occidentali. Alla fine, il gruppo consuma rapidamente i propri panini sulle panche all’esterno – la masticazione facilitata dal battere dei denti – e ottiene dal gestore almeno qualche tazza di tè caldo prima di riprendere il cammino di ritorno.

Il termine “rifugio” nel dizionario Treccani viene definito come «riparo, difesa, contro un’insidia o un pericolo materiale o morale»; evidentemente è un nome adatto per indicare strutture nate per ospitare i viandanti o rivolte agli alpinisti, anche se i rifugi alpini, sin dall’inizio, hanno avuto principalmente la funzione di punto d’appoggio per i frequentatori delle montagne e poi anche quella di ricovero in caso di emergenza. Va detto, inoltre, che i protagonisti di questa storia non erano in pericolo, ma semplicemente alla ricerca di un po’ di conforto dal freddo. La vicenda, però, solleva qualche spunto di riflessione su cosa siano diventati, oggi, i rifugi nelle Alpi.

È passata – fortunatamente – l’epoca in cui burberi rifugisti scodellavano pallidi minestroni e grezzi spezzatini probabilmente cotti nello stesso paiolo e poi tutti a dormire. Oggi, anche in rifugio, ci piace sederci a tavola, essere serviti con garbo pietanze magari semplici ma ricercate, preparate utilizzando prodotti genuini del territorio, possibilmente accompagnate da una buona bottiglia di vino selezionata da una carta che, nonostante il luogo impervio, ci propone Denominazioni di svariate provenienze. Non è questione di giudizio, ma segno del cambiamento dei tempi e dei gusti che i gestori più capaci sanno interpretare per andare incontro alle esigenze della clientela.

Abbiamo perso, però, in spontaneità. Per trovare posto in certe strutture occorre prenotare con settimane, se non mesi, di anticipo. E con l’avvicinarsi del giorno x, si trascorrono ore a controllare compulsivamente le previsioni meteo finché, alla prima avvisaglia di maltempo, si richiama per disdire piantando in asso il rifugista per colpa di una semplice icona di nuvoletta comparsa sullo schermo dello smartphone.

Poi la volta che, infreddoliti – ma non in pericolo, per carità – veniamo accompagnati alla porta perché lo staff è impegnato, in una struttura comunque spartana, a servire professionalmente una cena a base di antipasti, primo, secondo, contorno, dolce e caffé ai clienti che hanno prenotato da giorni, beh la riflessione sul concetto di rifugio sorge spontanea.

Articolo precedenteUna nuova immagine per i bivacchi delle Fiamme Gialle
Articolo successivoSOS per l’Évettes